Acqua bene comune?
di Marirosa Iannelli – foto di Thomas Cristofoletti
A ben nove anni dalla storica e conosciuta risoluzione ONU che sanciva il diritto all’acqua come diritto umano, primario e prioritario, nel mondo sono pochissimi quegli stati che hanno leggi concrete a tutela di un bene così prezioso. Un percorso giuridico lungo decenni nelle sedi politiche internazionali, dal Consiglio dei Diritti Umani di Ginevra, alle Nazioni Unite, fino alle Conferenze internazionali su clima e desertificazione, non ha ancora portato a ordinamenti giuridici precisi, cogenti, puntuali. In concreto, anche in un paese come l’Italia che è passato attraverso un referendum popolare, non esiste una legge nazionale a favore dell’acqua pubblica, accessibile a tutti e non in balia dei mercati finanziari o delle grandi multinazionali volte al profitto.
In tutto il mondo quasi due miliardi di persone non hanno accesso all’acqua potabile sicura né ai servizi igienico-sanitari di base, con conseguenti pesanti per la salute e le malattie infantili, infatti la diarrea uccide annualmente circa 1.8 milioni di bambini. La crisi sistemica legata anche agli impatti dei cambiamenti climatici ha visto la disponibilità pro capite di acqua a livello globale passare da 9000 metri cubi d’acqua potabile a disposizione negli anni Novanta a 7.800 nella prima decade del XXI secolo e si prevede che nel 2025, scenderà ancora a poco più di 5.000 metri cubi.
Mancato diritto umano all’acqua non vuol dire solo stress idrico, ma anche conflitti fra stati o fra comunità per riuscire a garantirsi l’accesso all’oro blu. Ad oggi ci sono più di 500 casi di conflitti irrisolti senza tavoli di lavoro congiunto tra paesi sulla gestione di acque transfrontaliere; al 2017 ci sono più di 20 casi di richiesta di arbitrato internazionale per l’interruzione della gestione idrica privata da parte di multinazionali (conflitto stato-multinazionale); ammontano a più di 600 invece i contenziosi tra stati e multinazionali in cui non si è ancora arrivati alla richiesta di arbitrato internazionale ma per cui è stata presentata domanda di violazione delle clausole contrattuali. Il Continente più colpito in assoluto dall’inaccessibilità alle fonti idriche a causa di conflitti interni è l’Africa mentre i paesi in cui ci sono controversie o conflitti che vedono l’acqua come elemento principale del contendere nel contesto dello sviluppo sociale economico sono India, Kenya, Egitto, Somalia, Kirgikistan, Brasile, Tanzania, Perù. Un scenario preoccupante che non è altro che il riflesso degli effetti della cosiddetta soft law, cioè quel sistema di norme prive di carattere vincolante e sanzionatorio capace di obbligare gli stati ad adempiere a quanto prescritto. In sostanza siamo ancora fermi a considerare il diritto umano all’acqua come “un invito all’impegno dei governi sia sul proprio territorio sia in contesto internazionale, a rendere effettivo l’esercizio di tale diritto”.
E’ importante tornare a parlare di diritti umani, oggi più che mai strettamente collegati all’ambiente, al clima, all’acqua. Dobbiamo tornare a parlare di acqua pubblica, di gestione comunitaria e partecipata, di ri-municipalizzazione, di gestione sostenibile delle risorse idriche in agricoltura e nell’industria. Abbiamo bisogno di rendere i nostri diritti, leggi a tutela dei beni comuni di tutte e tutti noi.