Cile, tra riforma del Codice idrico e razionamento dell’acqua
di Martina Morini
Nella nuova Costituzione che entro fine anno dovrebbe sostituire quella approvata ai tempi della dittatura di Pinochet, il Cile si definisce “plurinazionale, plurilingue ed ecologico”. Intanto, però, il problema della scarsità idrica si fa sempre più drammatico, con la parte centrale del Paese che affronta una siccità eccezionale che dura da oltre dodici anni. Il neopresidente Gabriel Boric ha promulgato una riforma che modificherà il Codice Idrico in vigore dal 1981, tra i pochi al mondo a prevedere un uso esplicitamente privato della risorsa idrica. I governi regionali intanto, incluso quello della capitale Santiago, annunciano misure di razionamento dell’acqua straordinarie per far fronte alla siccità.
Quella del Governatore di Santiago è solo l’ultima, e forse la più nota, tra le misure che il Cile si appresta a dover implementare se le condizioni di scarsità idrica del Paese non miglioreranno. Il protocollo formale , commissionato dal Governatore della regione Metropolitana di Santiago, Claudio Orrego, alla Soprintendenza ai Servizi Sanitari e ad Aguas Andinas (società controllata dal colosso Veolia-Suez), è stato presentato formalmente alla popolazione in una conferenza stampa lo scorso 11 Aprile.
Il protocollo verrà implementato sulla base del monitoraggio del livello dei fiumi Maipo e Mapocho, e prevede quattro scenari possibili. Si parte da un’allerta verde, considerata non troppo critica, che prevede il ricorso alle risorse sotterranee. Si prosegue con livelli di guardia intermedi , che daranno seguito ad un calo di pressione dai rubinetti. Nello scenario peggiore, annunciato da un’allerta rossa, sono previsti razionamenti a rotazione per una durata massima di 24 ore, con il ricorso a risorse di approvvigionamento alternative. In questa eventualità le persone coinvolte sfiorerebbero i 2 milioni: 142 mila nella parte est della città, che ha il fiume Mapocho come principale fonte di acqua, e un milione e mezzo residenti nella parte ovest, che dipende invece dal fiume Maipo.
Questi provvedimenti si inseriscono in uno scenario di siccità che persiste da più di dodici anni e che, secondo gli scienziati, trova le sue radici tanto nel cambiamento climatico quanto nella cattiva gestione delle risorse. Oltre a Santiago il caso più noto è quello di Petorca, nella regione del Valparaiso , dove l’industria agraria, rispondendo alla crescente domanda del Global North, ha favorito le monoculture di avocado ed agrumi. Si tratta di piante ad elevatissimo fabbisogno idrico, che viene soddisfatto assetando e privando dell’acqua le comunità circostanti.
Meno nota ma altrettanto critica è la situazione nella regione di Coquimbo, nel Cile centro-settentrionale, ed in particolare nelle province di Limarì e Choapa, caratterizzate da una forte presenza di agricoltori, allevatori e piccole aziende con produzioni che solo raramente arrivano a rifornire le altre province del Paese. In quest’area le principali fonti di approvvigionamento sono tre dighe artificiali: Recoleta, Paloma e Cogotì, collocate rispettivamente a nord-est, sud-est e sud-ovest del capoluogo. A inizio 2022 le tre dighe avevano raccolto solo il 25% della loro capienza totale, scatenando l’allerta delle autorità.
A metà gennaio Krist Narajo, Governatrice della regione, dopo un incontro con i sindaci delle due province, annunciava quindi una serie di misure di emergenza. Tra queste figuravano un piano finanziario e, qualora la situazione non fosse migliorata, il possibile ricorso al razionamento idrico. Allo stesso modo del Valparaiso, le grandi agroindustrie hanno puntato sulle monoculture di avocado e agrumi. A pagarne le conseguenze sono i piccoli coltivatori che, sempre più numerosi, si arrendono a diventare impiegati nelle industrie, nelle imprese minerarie al nord o a migrare. Per il fabbisogno quotidiano ci si affida già al rifornimento delle autocisterne, ma l’acqua per irrigare i campi e abbeverare gli animali è sempre più spesso impossibile da reperire.
In questo scenario di siccità, cambiamento climatico e sfruttamento delle risorse idriche, il Cile è arrivato il 25 marzo scorso alla riforma del “codice idrico” in vigore dal 1981. Quello dell’acqua è sempre stato un nervo scoperto nel Paese, almeno da quando, durante la dittatura di Pinochet, il diritto di accesso all’acqua è stato “privatizzato”. Per acquisire il diritto di utilizzo dell’acqua non è sufficiente comprare il terreno in cui la risorsa si trova, ma è necessario richiederlo alle autorità competenti che lo concederanno nel caso in cui sia ancora disponibile e non sia già stato ottenuto da altri. L’analisi di un gruppo di ricercatori della Pontificia Universitá Cattolica di Santiago (UC) – che ha studiato le gestioni virtuose dell’acqua nelle costituzioni di 92 Paesi tra Europa, America ed Oceania – evidenzia come il Cile sia l’unico Paese al mondo che sancisce la proprietà privata dei diritti di uso dell’acqua.
Lo scorso 25 marzo, dopo 11 anni di attesa, il Presidente della Repubblica Gabriel Boric ha finalmente promulgato la riforma del codice idrico , dove per la prima volta viene riconosciuto il cambiamento climatico come fenomeno che minaccia le risorse idriche, e viene promosso un uso più sostenibile della risorsa. Cristóbal Juliá, direttore regionale della Direzione Generale Dell’Acqua (DGA), ha spiegato che al momento, a livello centrale, si sta lavorando all’attuazione di questa riforma. Il codice, infatti, pur rimanendo abbastanza simile al precedente, “in caso di concorrenza con attività produttive come l’agricoltura, ora privilegia il consumo umano indipendentemente dai diritti di utilizzo dell’acqua disponibili”.
La popolazione ha accolto con favore una riforma che aspettava da anni. Ma tra siccità, cambiamento climatico e casi sempre più evidenti di accaparramento idrico, la strada del Cile verso una gestione sostenibile dell’acqua è ancora lunga.