Cina, il governo lancia un appello globale contro la desertificazione. Ma non rinuncia alle fonti fossili
di Enrico Breveglieri
La sfida al cambiamento climatico è globale ma anche locale. Gli Stati devono coordinarsi per arginare il riscaldamento del clima ma allo stesso tempo devono adottare politiche a livello nazionale per mitigarne l’impatto. In questo contesto, dalla Cina emergono segnali contraddittori. Se da un lato il gigante asiatico ha rimandato al 2060 il superamento dei combustibili fossili, che intensificano siccità ed eventi climatici estremi, dall’altro ha avviato un grande piano di investimenti contro la desertificazione. Progetti che però appaiono in contrasto con le scelte di un Paese in cui gigantesche dighe idroelettriche hanno provocato danni alla biodiversità e altissimi costi sociali.
Il 9 maggio di quest’anno il Ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha lanciato un appello globale contro la desertificazione. La ricetta cinese per “rompere il ciclo vizioso di desertificazione e povertà” si basa su tre punti: rinforzare la cooperazione internazionale, promuovere lo sviluppo green nel mondo e migliorare il diritto internazionale in materia ambientale.
Le preoccupazioni di Pechino sono legittime: stando ai dati forniti dall’Atlante Globale della Desertificazione, il 75% del pianeta è già considerato degradato, ed entro il 2050 la percentuale potrebbe arrivare addirittura al 90%. Nella stessa Cina, stando alla Banca Mondiale, la desertificazione colpisce già un quarto del territorio. Un disastro in cui le cause antropiche giocano un ruolo decisivo, ma la causa principale è da ricercare nel riscaldamento climatico.
Il Ministero delle Risorse Idriche cinese ha varato una serie di progetti su larga scala atti a ridurre i danni della siccità. Si parla di investimenti di oltre 2,3 miliardi di dollari, destinati a progetti che mirano a integrare l’approvvigionamento idrico urbano e rurale e alla standardizzazione dei servizi idrici per la metà della popolazione del Paese. Altri fondi verranno indirizzati all’ottimizzazione e alla manutenzione delle piccole strutture idriche. La Cina ha inoltre cominciato ad applicare le nuove tecnologie alle grandi opere idrauliche, annunciando che grazie ad un progetto della Tsinghua University entro il 2024 una diga alta 180 metri verrà costruita con delle stampanti 3D. Un progetto colossale, che vede coinvolti centinaia di automezzi guidati da intelligenze artificiali per evitare gli errori umani, e che aprirebbe la strada alla costruzione di altre dighe in tempi rapidi in tutto il Paese per aumentare la produzione energetica.
Un altro sforzo cinese, allo stesso tempo fortemente simbolico ed eseguito su larga scala, è la cosiddetta Muraglia verde cinese, un progetto iniziato nel 1978 che dovrebbe concludersi nel 2050. Per fermare l’avanzata del deserto, l’intervento prevede la piantumazione di milioni di alberi in tutto il Paese in un’area di migliaia di chilometri quadrati.
Nonostante le grandi speranze alimentate dalla nuova “Grande Muraglia”, i risultati finali non si sono rivelati all’altezza delle aspettative: la piantumazione di milioni di piante della stessa specie, oltre a ridurre la biodiversità, ha reso i boschi “artificiali” più vulnerabili ai patogeni. Nella regione dello Ningxia Hui, ad esempio, una singola malattia ha ucciso un miliardo di alberi di pioppo, annullando i progressi fatti nel corso di vent’anni.
A prima vista la Cina sta compiendo uno sforzo inaudito. Tuttavia, i progetti e gli annunci cinesi cadono in un quadro globale in cui Pechino non brilla per la coerenza nella lotta ai cambiamenti climatici o per l’efficacia delle sue proposte in fatto di acqua e desertificazione.
Partendo dall’ultima COP26 di Glasgow nel novembre 2021, è da ricordare come la Cina, assieme all’India, abbia deciso di raggiungere la neutralità carbonica solo entro il 2060. Poco prima, al G20 di Roma sul clima, il Paese, assieme a India, Australia e Russia, aveva rinunciato a impegnarsi per l’addio definitivo al carbone come fonte energetica.
Parlando delle dighe cinesi, veri e propri capolavori di ingegneria, non si può non parlare dei danni alla biodiversità provocati dalle dighe delle Tre Gole. Uno studio del 2021 ha analizzato l’impatto complessivo delle opere nel corso di 30 anni, giungendo alla conclusione che le dighe avevano provocato un drastico cambiamento nella sedimentazione del fiume Yang-Tze, determinando una elevata erosione del suolo sul volume di deposito dei detriti. Ai danni ambientali si sommano quelli sociali: si stima che la costruzione delle dighe delle tre gole abbia costretto 23 milioni di persone ad abbandonare le loro case, in cambio di compensazioni economiche largamente inadeguate.
La Cina si trova quindi in una situazione particolare. Se le strategie attuate in materia di lotta alla desertificazione e al cambiamento climatico fanno sperare in un reale cambio di passo, allo stesso tempo Pechino mostra ancora una forte dipendenza dalle fonti energetiche tradizionali e una tendenza a imporre dall’alto soluzioni su vastissima scala che comportano costi enormi sia sul piano ambientale che su quello sociale.
«Il XIV piano Quinquennale mostra la volontà di Pechino di intraprendere un percorso importante, essendo Xi ben consapevole degli impatti sulla stabilità e sull’armonia legati ai cambiamenti climatici, desertificazione e fenomeni catastrofici», commenta Emanuele Bompan, vicepresidente di Water Grabbing Observatory. «Ma il governo centrale rimane spesso bloccato dalle pressioni che riceve a livello di province dove perdurano equilibri economici legati al settore delle fossili e dove si incontra maggiore resistenza al cambiamento. Gli interessi particolari legati alle infrastrutture energetiche classiche sono il vero freno al cambiamento»
Il massiccio ricorso all’idroelettrico in particolare, che nel Paese si concretizza in alcune tra le dighe più grandi del mondo, appare particolarmente preoccupante per gli immensi stravolgimenti del ciclo idrico a livello regionale, con tutti i rischi e gli impatti che ciò comporta in tempi di cambiamento climatico.
Photo Credit: South China Morning Post