Grand Ethiopian Renaissance Dam: quando la “guerra” per l’acqua è anche una questione di cybersecurity
di Silvia Sarti – Photo Credit: Fausto Podavini
La contesa delle acque del Nilo in Africa è ancora oggi causa di numerose dispute tra Etiopia, Egitto e Sudan. A evidenziarlo l’ultimo attacco informatico contro la Grand Ethiopian Renaissance Dam (GERD) di inizio maggio 2022 e la dichiarazione dell’Egitto di includere le questioni africane sull’acqua in cima alle priorità della COP27, che quest’anno si terrà proprio a Sharm el-Sheik . La corsa all’indipendenza idroelettrica intrapresa dall’Etiopia con la costruzione della GERD – infrastruttura che da sola dovrebbe generare circa 5.2 gigawatt di elettricità – è tuttora inarrestabile. Allo stesso tempo, l’incapacità di giungere ad accordi trilaterali per la gestione delle risorse idriche condivise non fa ben sperare circa la possibilità di costruire nuovi equilibri di pace.
La Grand Ethiopian Renaissance Dam torna a far parlare di sé
Nelle ultime settimane, la questione sull’acqua è diventata sempre più calda nel continente africano. Le negoziazioni tra Etiopia, Egitto e Sudan per la regolamentazione del terzo riempimento della Grand Ethiopian Renaissance Dam (Gerd) sono ancora in corso e, proprio mentre l’Egitto si sta preparando a ospitare sia la Cario Water Week che l’annuale Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP27), nei primi giorni di maggio 2022 l’Agenzia etiope per la sicurezza delle comunicazioni (Insa) ha sventato un attacco informatico contro la GERD e le principali istituzioni finanziarie del Paese. Sarebbero più di 37mila i computer connessi alla diga presi di mira. Se gli attacchi fossero andati a buon fine, avrebbero potuto causare danni devastanti per tutto il Paese.
Il tentativo di cyber sabotaggio non è certo stato il primo che ha dovuto fronteggiare Addis Abeba negli ultimi anni. Già a giugno 2020, diversi attacchi informatici furono sventati dall’Insa e, successivamente, ricondotti ai gruppi hacker “Cyber Horus Group”, “AnuBis Hacker” e “Security By Passed”, con sede in Egitto. “Se il livello del fiume scende, affrettate tutti i soldati del Faraone. Preparate il popolo etiope all’ira dei Faraoni”, questo il messaggio diffuso dagli hacker egiziani, accompagnato dall’immagine di uno scheletro vestito da faraone con una falce e una scimitarra tra le mani. Alla base del dissenso egiziano nei confronti della diga vi era stata la notizia dell’imminente riempimento del bacino idroelettrico, il primo nella storia della Gerd. L’evento era stato preceduto da un significativo fallimento diplomatico tra i due Paesi: a febbraio 2020 Addis Abeba disertò infatti i tentativi di un ulteriore accordo su un coinvolgimento più inclusivo dei Paesi attraversati dalle acque del Nilo nella gestione della GERD.
Dal 2020 ad oggi, la minaccia di continui tentativi di hackeraggio informatico ha posto il governo di Addis Abeba di fronte a diverse questioni circa gli interessi e la politica estera del Paese. Il 5 ottobre del 2020 l’Etiopia proibì ufficialmente, per motivi di sicurezza nazionale, qualunque volo che si trovasse a sorvolare l’area interessata alla diga, causando un ulteriore contraccolpo al già precario equilibrio delle relazioni internazionali con gli Stati attraversati dal Nilo.
A distanza di due anni, gli eventi più recenti hanno testimoniato come la GERD sia ancora oggi al centro della disputa tra Etiopia ed Egitto e che la questione circa l’utilizzo del bacino idroelettrico sia tuttora molto accesa. Per orientarsi nella contorta vicenda che ha posto in conflitto interessi nazionali divergenti è, però, necessario fare un passo indietro.
Il business dell’energia idroelettrica
La diga GERD, la più grande centrale idroelettrica di tutta l’Africa e capace di generare 6450 megawatt di energia, è solo l’ultimo dei grandi progetti idroelettrici avviati negli ultimi decenni dall’Etiopia. Il progetto di costruzione del gruppo di dighe Gilgel Gibe, infatti , risale addirittura agli anni Ottanta, anche se la prima diga fu realizzata solamente tra il 1999 e il 2003. La costruzione della Gibe I segnò, a inizio degli anni Duemila, l’inizio della corsa al business dell’energia idroelettrica nella Regione: nel 2004 vennero avviati i lavori per la Gibe II e nel 2006 quelli della Gibe III, inaugurata ufficialmente nel 2016. Un progetto ambizioso che coinvolse diversi attori internazionali, tra cui italiana Salini Impregilo (ora WeBuild) che si occupò della costruzione, e la Banca Mondiale, che sostenne economicamente il primo step del progetto. Un ruolo centrale lo ebbero anche la Cooperazione Italiana e la Banca Europea per gli Investimenti, mentre più incerto fu quello dell’African Development Bank che, dopo aver considerato positivamente il suo coinvolgimento economico diretto, preferì ritirare la proposta di finanziamento.
A differenza di quanto sostenuto dal governo etiope, gli unici attori di cui non si tenne conto furono le popolazioni tribali della valle dell’Omo. Anche se il grande progetto avrebbe potuto garantire l’effettiva l’indipendenza energetica della capitale – con un bacino idrico in grado di alimentare turbine da 1870 megawatt di capacità produttiva – e un posizionamento migliore nello scacchiere geopolitico africano, gli effetti furono devastanti per le popolazioni locali. Numerosi studi d’impatto ambientale evidenziarono come la costruzione degli impianti di irrigazione correlati alle dighe abbiano trasformato le terre intorno al bacino dell’Omo in vere e proprie piantagioni intensive di canna da zucchero e cotone.
In realtà, il grande progetto agroindustriale correlato alla diga però non decollò mai: nel 2019 furono solamente due le imprese per la lavorazione della canna da zucchero effettivamente rese operative capaci di garantire occupazione -precaria- alla popolazione. Il sovrasfruttamento delle terre e delle risorse ittiche provocò un grave impoverimento delle risorse per natura disponibili che permettevano il pieno sostentamento lungo le rive dell’Omo. Le popolazioni dedite all’agricoltura lungo il fiume, infatti, erano solite piantare grano e sorgo nella terra che le esondazioni dell’Omo rendevano fertile. Ma, in seguito alla costruzione della diga, anche le esondazioni terminarono e mai vennero realizzate quelle controllate e promesse dal progetto etiope.
La diga Gibe III, costruita a circa 300 km a sud-est della capitale e con un’estensione di oltre 200 km quadrati, comportò la costruzione di due argini di contenimento e di tre tunnel di deviazione del fiume Omo. Come documentato anche da Water Grabbing Observatory, questa trasformazione dello scenario rurale locale fu alla base dei radicali cambiamenti nel territorio e nella cultura delle comunità etniche locali, costrette a spostamenti e trasferimenti lontano dalla Valle. Non di minore importanza furono gli effetti del gruppo di dighe sul lago Turkana in Kenya e, di conseguenza, sulle popolazioni locali che vivevano di pastorizia e pesca. Le nuove infrastrutture idriche, infatti, provocarono un significativo abbassamento del bacino e della portata del lago. Infine, anche i Paesi confinanti all’Etiopia, come l’Egitto e il Sudan, vennero inevitabilmente investiti dalle conseguenze del progetto energetico etiope, il cui ultimo step fu la realizzazione della diga GERD nel 2011, definita come “il più grande sbarramento idroelettrico d’Africa”.
Etiopia, Sudan ed Egitto: un triangolo pericoloso
Il business dell’energia idroelettrica dell’Etiopia si è rivelato negli anni sempre più fragile. La preoccupazione di dover fronteggiare lunghi periodi di carenza di acqua a causa del dirottamento della risorsa idrica proveniente dal Nilo verso la diga ha raggiunto un’escalation senza precedenti, in particolare negli ultimi due anni. Per l’Egitto, che dipende quasi totalmente dal Nilo per l’approvvigionamento di acqua potabile e per l’irrigazione, la GERD rappresenta una vera e propria minaccia esistenziale. La diga non ha destato meno preoccupazioni al Sudan che, in assenza di una concordata regolamentazione delle inondazioni annuali, vede ridursi il potere di manovra sulla propria economia.
Dopo il primo riempimento nel 2020, un secondo riempimento della diga fu proposto per l’inizio delle piogge stagionali. Ancora una volta la realizzazione avvenne senza la stipulazione di un accordo triangolare tra Etiopia, Egitto e Sudan che dopo essersi pubblicamente e ufficialmente dissociati dal secondo riempimento interpellarono con scarsi risultati nuovi attori internazionali in qualità di mediatori dell’accordo.
Dalla fine del 2019 alla metà del 2020, la mediazione sulla GERD fu in capo a Stati Uniti e Banca Mondiale. Ma, poiché gli etiopi giudicarono la posizione degli USA troppo sbilanciata a sostegno delle argomentazioni egiziane e sudanesi, dalla seconda metà del 2020 fu il Sudafrica, in qualità di Presidente dell’Unione Africana, ad assumere la mediazione. Tuttavia, nonostante il ruolo più imparziale del Sudafrica rispetto al Governo americano, a marzo 2021 Egitto e Sudan richiesero un coinvolgimento di ulteriori attori internazionali per la risoluzione della disputa. In particolare, il nuovo quartetto doveva essere composto da Unione Africana, Unione Europea, Stati Uniti e Nazioni Unite , mentre la mediazione doveva avvenire sotto la guida del presidente della Repubblica Democratica del Congo, nonché presidente dell’Unione Africana. Queste interferenze esterne tuttavia non piacquero all’Etiopia, che rifiutò la proposta poiché la “risoluzione dei problemi africani sarebbe dovuta avvenire da parte degli africani”.
Il 2022 ha invece segnato fin da subito un anno molto importante, sia per il futuro della diga e la rinascita economica dell’Etiopia che per quello delle relazioni tra i tre paesi. A febbraio, infatti, iniziava ufficialmente la produzione elettrica della GERD, definita dal premier Abiy Ahmed Ali, in occasione della cerimonia inaugurale del 20 febbraio, come una vera e propria “benedizione, non solo per noi ma anche per l’Egitto e il Sudan”. A differenza di quanto affermato dal primo ministro etiope, i due Paesi non esultarono come sperato. Al contrario, mossero nuove accuse nei confronti dell’Etiopia, a causa della violazione degli accordi sulla gestione trilaterale delle acque del Nilo, stipulati nel 2015. Così, a marzo si avviarono nuovi colloqui segreti ad Abu Dhabi, a livello di funzionari, mediati dagli Emirati Arabi Uniti. Il ruolo degli attori mediorientali nella contesa non è stato certamente casuale: gli Emirati Arabi, insieme ad Arabia Saudita, Qatar e Turchia, avevano interessi economici di rilievo nel tutelare il proprio posizionamento strategico e la propria influenza nella Regione africana. Allo stesso tempo, la disputa ha rappresentato per il Medio Oriente anche la miglior occasione per porsi agli occhi del mondo intero come “agenti di stabilizzazione” e assumere così un ruolo predominante rispetto a Stati Uniti, Unione Europea e Cina.
Quali scenari aspettarsi per il futuro?
La possibilità che la silenziosa “guerra per le acque” del Nilo si trasformasse in un vero e proprio conflitto armato tra Etiopia, Egitto e Sudan ha creato uno squarcio inevitabile nei rapporti diplomatici degli Stati africani. Questo, proprio perché al problema ambientale ed economico si aggiungono i forti temi identitari e il legame che ognuno di ognuno di questi Paesi ha con il fiume. La popolazione egiziana, ad esempio, vive un senso di appartenenza esclusivo con il Nilo, che ha sia radici ideologiche e mitologiche sia concrete e materiali, legate al fatto che è, fin dall’antichità, la principale fonte di approvvigionamento naturale di tutto il Paese.
Alla luce di questo, non è difficile dunque comprendere perché proprio quest’anno la questione sull’acqua in Africa sia diventata più urgente, se non esistenziale, tanto da indurre l’Egitto a includerla in cima alla lista delle priorità della COP27 che si terrà proprio a Sharm el-Sheik dal 7 al 18 novembre 2022. Lo scorso 9 maggio, il ministro dell’Ambiente Yasmin Fouad ha incontrato al Cairo l’ambasciatore italiano Michele Quaroni, per un confronto diplomatico in vista della preparazione della COP27, sottolineando sia l’impegno diretto dell’Egitto verso un percorso sempre più sostenibile dal punto di vista climatico e ambientale – ancora tutto da verificare – che quello volto a incoraggiare anche gli altri Paesi ad aggiornare le proprie strategie interne per contrastare gli effetti dei cambiamenti climatici.
La Conferenza sul Clima, oltre che occasione per riportare l’attenzione internazionale sui problemi idrici africani, potrebbe essere un nuovo tentativo da parte dell’Egitto di far sì che, di fronte al mondo intero, l’Etiopia non si tiri indietro anche questa volta nel giocare una partita condivisa sulla gestione della Gerd. Intanto, anche se i conflitti armati sono stati fino ad oggi scongiurati, gli attacchi informatici, i tentativi di cyber sabotaggio delle ultime settimane, il plausibile terzo riempimento, previsto per il prossimo luglio, e l’incapacità di negoziazione tra i tre Paesi non fanno ben sperare. La “guerra per l’acqua” tra Etiopia, Egitto e Sudan non è ancora finita. Ha solo cambiato forma.