Foto di Alessandro Speccher
I ramponi affondano nella neve liquefatta. Il ghiaccio, leggero e instabile, si rompe ad ogni passo, lasciando affondare le punte d’acciaio. In alcuni punti il lastrone è nero, ricoperto di particolati, traccia dell’inquinamento della Pianura Padana. In altre azzurro vivo. «Quello è ghiaccio solido, va bene per camminarci sopra, meglio evitare le lingue innevate: nascondo crepacci e oggi i ponti nevai sono sempre più instabili ». Oskar Moser, classe 1948 è una delle più vecchie guide del gruppo dell’Ortles-Cevedale, nel Parco Nazionale dello Stelvio. Da 40 anni porta alpinisti sulle vette del Gran Zebrù, dell’Ortles, del Cevedale. Conosce ogni parete nord, ogni sella, ogni vedretta della zona. Sull’Ortles, 3905 metri, è salito oltre ottocento volte. «La montagna illumina lo spirito, dà felicità», dice mentre cammina spedito attraversando il ghiacciaio del Cevedale, direzione “i 3 cannoni”, immensi pezzi di artiglieria rimasti sul ghiacciaio dopo la Prima Guerra Mondiale. Un mondo di ghiaccio il suo, che ha sempre mutato. Se si porge l’orecchio si può sentire il suo passo, che rimbomba con crepitii sinistri. «Oggi però cambia a una velocità impressionante. Dove c’erano le lingue imponenti dei ghiacciai c’è solo roccia e sfasciumi».
Stiamo percorrendo l’Alta via dell’Ortles, un nuovo circuito alpino di sette tappe, 119,5 km di natura incontaminata, e un dislivello complessivo di 8.126 m, che porta il viaggiatore attraverso alcuni dei ghiacciai più grandi – se così si può dire – delle Alpi Retiche, raccontandone una storia di grande sofferenza ed una delle testimonianze più visibili del cambiamento climatico nel nostro paese.