There’s something in the water
di Christian Elia
“E quando scopri che c’è qualcosa che non va nella tua acqua, vuol dire che c’è qualcosa che non va nella tua vita”.
Louise è una cittadina di Shelbourne, nella Nuova Scozia, in Canada. La sua è una delle tre storie che vanno a completare il documentario There’s something in the water, di Ellen Page e Ian Daniel.
Tre storie di cittadini, tre storie di donne. Tre storie di acqua e razzismo ambientale.
La categoria del razzismo ambientale, che nel documentario è introdotta dalla studiosa Ingrid Woldron, porta a collegare come un certo modello di sviluppo – che andava a impattare gravemente su salute e ambiente – fosse stato sostanzialmente scaricato su comunità marginali.
Nel caso del Canada, e della Nuova Scozia, sui nativi e sugli afro-discendenti. Ed è questo che offre grande respiro al documentario, perché tre piccole storie raccontano un mondo intero.
Quella di Louise è la storia di una comunità di schiavi liberati a inizio ‘800, che si stabiliscono nella zona di Halifax. Qui, negli anni ’40, viene impiantata un’enorme discarica che ha chiuso i battenti solo nel 2016.
La teoria di case che Louise indica agli autori, passando in macchina, come la sua foto di famiglia, diventa una Spoon River: non c’è famiglia, non c’è casa, senza vittime di mieloma multiplo.
“Abbiamo fatto analizzare i pozzi delle famiglie, perché questa zona non è allacciata all’acquedotto. C’è arsenico, ovunque. La discarica ha contaminato la falda. Ed è assurdo pensare che le persone muoiono perché c’è un mondo intero che non è capace di riutilizzare, ma solo di usare e buttare.”
La seconda storia è quella di Michelle, dalla baia di Boat Harbour. Una comunità di nativi, i Mi’kmaq, nel 1965, accettano 60 mila dollari per cedere i loro diritti su un territorio sul quale nasce la Scott Paper Company, una cartiera. A firmare quell’accordo, è il nonno di Michelle.
“Lo hanno ingannato e lui è morto per il senso di colpa”, racconta Michelle. Morto come migliaia di altre persone della comunità, che ha un’incidenza devastante di malattie connesse alla contaminazione di mercurio degli scarti di produzione, che finiscono nella baia che dava da vivere a generazioni di nativi.
“I pesci morivano a migliaia, da subito”, racconta Michelle. Le immagini del drone che sorvola la baia tolgono il fiato: una sorta di Stige dantesco, che esala miasmi inquietanti. Michelle e la sua comunità hanno condotto una dura lotta e, finalmente, il 31 gennaio 2020 è stato imposto all’azienda di sospendere gli sversamenti di scarti di produzione e di ripristinare la zona.
L’ultima storia è quella delle Grassroots Grandmothers, un gruppo di donne native degli Sipekne’Katik, che si battono da anni – a Stewiacke, sempre in Nuova Scozia – contro un progetto dell’Altagas Corporation. L’azienda ha scovato nel sottosuolo della zona delle grandi grotte di sale. Il progetto è quello di sciogliere forzatamente quel sale sversandolo nel fiume, così da creare delle aree di stoccaggio di gas nelle grotte. Il livello di salinità del fiume, a quel punto, ne ucciderebbe la vita.
“Questo fiume è l’autostrada della nostra comunità, lo è da sempre”, spiega Dorene, una delle donne del gruppo. “Rifacendoci a una clausola del trattato del 1752 tra colonizzatori e nativi, abbiamo iniziato a costruire tracks house, per bloccare i cantieri, che il governo canadese vuole, al punto di cambiare la legge di tutela ambientale. Ci hanno arrestato varie volte, ma non ci fermeremo.”
Piccole storie, un mondo intero. E al femminile. “Perché per le comunità native, e anche in generale, sono le donne che pensano all’acqua. La curano, la prendono, la usano per la comunità. Noi stiamo continuando solo a fare quello che abbiamo sempre fatto.”